L'assuefazione alla città e ai suoi marchi


Sono nato, cresciuto e vissuto fuori dagli artigli famelici della grande città (entità malefica e maledetta ma a cui tutti, prima o poi, chi per un motivo chi per un altro, dobbiamo soccombere). Non sono mai stato attratto dalle notizie che provenivano da essa, soprattutto quelle di tipo socio-culturale: le mode, i quartieri, gli appuntamenti fissi, i grandi negozi storici e di "importazione" (spesso d'oltreoceano).
Eppure, da quando risiedo con una certa continuità a Milano, inizio a capire quanto sia difficile concentrare tante persone in uno spazio così esiguo: tutti impazziscono, si accavallano esigenze e situazioni, si stabiliscono nuovi contatti e nuovi interessi e nuove sensazioni. Chiariamo subito un punto: in città non mi sento a mio agio.
Sono abituato ad abbozzare un 'giorno alle persone che incontro sulle scale di un palazzo, persone anche sconosciute. E mi incaz... mi offendo se l'altro tira dritto senza neanche spostare lo sguardo su di me o distogliere il pensiero dalle sue mille preoccupazioni per lasciarmi passare con più agio (e questo bisogna farlo in due, sia chiaro). Eppure ci si abitua. Ci si abitua a ignorare lo sguardo di un passante, ci si abitua a gettare cartaccia per terra, ci si abitua e pensare di più (o quasi esclusivamente) solo a sé stessi.

Ci si adagia, ci si rammolisce, ci si abitua.

Forse esagero, ma si tratta di una sorta di egoismo diffuso, generalizzato. Per me è una sensazione nuova, e forse per questo la sento come estranea alla mia natura; eppure la sento dentro di me. Sento che corre e si impossessa (ogni giorno di più) della mia passeggiata, della mia spesa al supermercato, del mio tragitto in metropolitana.

I "nuovi mostri" dell'immaginario collettivo sono le multinazionali, ma probabilmente sono un qualcosa di astratto per la maggior parte dei cittadini. I "veri "nuovi mostri"" sono le grandi catene, i franchising, i "luoghi anonimi per eccellenza" del XX-XXI secolo. Luoghi nei quali comincio a sentirmi a mio agio. E ciò mi spaventa.

Mi spaventa riuscire a capire il senso profondo (senza esagerare, eh?) di questo passaggio (tratto dal libro di Nick Hornby (a cui, per altro, continuo a preferire De Carlo (per una volta cerco di non essere esterofilo))
: "Non buttiamoci giù"):
Tutti la menano che i posti tipo Starbucks sono impersonali eccetera, ma come la mettiamo quando così è proprio quello che cerchi? Io sarei persa se i tipi come JJ facessero come vogliono loro, e nel mondo non c’è niente di impersonale. A me piace sapere che esistono dei posti grandi e senza vetrine dove a nessuno gliene frega un cazzo. Devi essere sicura di te stessa per entrare nei posti più piccoli, con i clienti abituali, le piccole librerie e i negozietti di dischi e i ristorantini e i caffè. Io sto al massimo da Virgin Megastore, da Borders e da Starbucks e da Pizza Express, dove tutti si sbattono i coglioni e nessuno sa chi sei. Mia mamma e mio papà stanno sempre a menarla che son posti senz’anima e io, cioè, capito. È questo il punto.

Quanto è strana la natura umana! Da una parte si cerca a tutti i costi di apparire (vedi veline-mania (anche se un po' sopravvalutata dai media)), dall'altra il desiderio di scomparire all'attenzione del prossimo (...troppo biblico?). Forse il punto d'arrivo è questo: vogliamo essere appariscenti di fronte a una folla di persone senza volto e senza parola.

Scusate, devo chiudere questa sconclusionata riflessione (ma se la chiudo non è "sconclusionata", magarisolo campata n aria...)perché devo andare dal negozietto "sottocasa" a comprare la verdura... però all'Esselunga si risparmia, però all'Esselunga non devo raccontare al salumiere come ho passato il fine settimana, però all'Esselunga risparmio qualche centesimo, però all'Esselunga trovo parcheggio, però ho voglia di mangiare qualcosa di nuovo, però già che ci sono mi prendo il milionesimo tipo/formato di pasta Barilla, però... però... però... ah già... il negozietto "sottocasa" è fallito già da un po' (e la colpa è anche mia).

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